L’ ondata internazionale di distruzione di monumenti innestata dalla morte di George Perry Floyd (25 maggio 2020) è solo un fenomeno sociale fuori controllo o può essere letto in chiave culturale oltre che politica?
Purtroppo nella storia dell’arte ci sono stati innumerevoli esempi di distruzione di opere, monumenti e addirittura interi quartieri e città. Rimozioni dettate da ragioni storiche e politiche, ma anche economiche e sociali che hanno privato l’umanità di splendidi capolavori, sostituiti talvolta da nuovi artefatti, altre volte dal nulla.
Paradossalmente il distruggere è l’altro lato della medaglia del costruire. Esso si oppone all’ ansia di occupare spazi vuoti che caratterizza da sempre l’uomo soprattutto bianco e occidentale. Il de-costruire però è anch’esso un atto creativo, un’azione un gesto non privo di implicazioni e di significati attinenti al lavoro dell’artista. In un mondo dell’arte gridato, dove la promozione e magari anche la provocazione supera l’ingegno, la comunicazione diventa indubbiamente il fulcro del discorso estetico.
Basterebbe questo a farci riflettere sul valore di atti distruttivi come quelli che stiamo vivendo in questi giorni, ma forse dovremmo partire dal motivo che spingeva fin dalla notte dei tempi il potere ad occuparsi di arte. La magnificenza di un faraone si misurava con la sua capacità di costruire splendidi templi e piramidi: non stupisce dunque se alla venuta di un nuovo regnante si dovessero cancellare almeno le insegne. Gli imperi in caso di vittorie guerresche distruggevano i monumenti, si pensi alla distruzione della grande biblioteca di Alessandria voluta da Alessandro il grande, non sappiamo ancora se da parte dei Romani o dei primi cristiani.
Dopo che il vento iconoclasta si è diffuso dal Medio oriente all’ Europa, nel corso dei secoli successivi non mancarono queste manifestazioni di “odio”, che giunsero fino al ‘900. La controriforma dopo il concilio di Trento si accanì contro le immagini ritenute lascive. A Trento il presunto martire vescovo S. Vigilio viene spesso rappresentato come il distruttore dell’immagine pagana di un idoletto pagano, che sembrerebbe aver scatenato l’ira dei villici. Per rimanere in Trentino la chiesa di Brancolino svela dopo il restauro degli anni ‘80 furono le splendide cromie delle sante svestite e dei fiori celati dalla vernice scura dei Gesuiti. In seguito in alcuni nostri paesini i francesi lasciarono sfregi altrettanto cruenti sugli affreschi religiosi delle chiese come quella di San Lorenzo a Trento o di Brentonico solo per citare alcuni esempi. Fu un fenomeno molto diffuso in Europa, che in Italia ebbe maggiore diffusione con la distruzione dei monumenti fascisti, proliferati dopo la prima guerra, alcuni di questi distrutti assieme alle insegne del regime, come il monumento di Libera a Villa Lagarina.
Nel mondo a partire dalla furia dei bolscevichi negli anni ’20 in Russia, i grandi conflitti mondiali che si ebbero grandi perdite sia per cause di strategia militare che per cause più specifiche nei riguardi delle opere d’arte trafugate , svendute o distrutte. Parigi si salvò per miracolo. Una lacerazione che si trascina tutt’ora soprattutto in quelle zone di confine con maggior carico di sofferenza causata dai conflitti etnici.
La soppressione della lingua madre, a modo suo può essere annoverato, fra queste perdite: Lavarone e Bolzano possono essere un esempio eclatante.
Fu però il recente risveglio del terrorismo islamista ad infliggere il maggior danno al patrimonio storico culturale, ferite che spaziano geograficamente dalla distruzione delle statue le statue di Buddha presenti nella valle di Bamyian fino alle Torri Gemelle di New York, che scioccarono il mondo intero. Quest’ultimo fenomeno, apparentemente esogeno, che sembrava ormai dimenticato nelle susseguirsi frenetico delle guerre mediorientali, ha preceduto di qualche decennio un’altra ondata internazionale di distruzione innestata dalla morte di George Perry Floyd (25 maggio 2020), avvenuta inaspettatamente all’interno dell’impero statunitense nella città di Minneapolis.
Un fenomeno accanitosi sui memoriali e monumenti negli Stati Uniti d’America, accusati di testimoniare lo sterminio razzista delle popolazioni indigene. Le statue del navigatore italiano Cristoforo Colombo, in Virginia e a Boston non sono più considerate come il simbolo del genio italiano ma come simbolo del genocidio delle popolazioni native americane. Una protesta che si diffonde, a macchia d’olio nel mondo e inevitabilmente giunge in Italia sotto forma di spregio del colonialismo nostrano di cui Montanelli qui a Milano diventa il capro espiatorio. Ultima della serie la notizia che in Colombia è stato preso di mira il monumento dedicato a Sebastián de Belalcázar, il capitano dell’avventuriero Francisco Pizarro.
Ma cosa centra l’arte in tutto questo? Direi che centra eccome intanto quelli che vengono distrutti sono monumenti, cioè le opere d’arte di artisti che molto spesso sono artisti di regime foraggiati nei secoli dal potere costituito, da sempre onnivoro di testimonianze da lasciare ai posteri: quella che oggi si chiama arte pubblica. In secondo luogo era prevedibile che dopo intere generazioni di artisti impegnati a de-costruire i codici estetici vigenti , attraverso le avanguardie, l’astrattismo l’immaterialità degli ultimi movimenti legati ai media, prima o poi qualcuno avrebbe tratto cattivo insegnamento, scambiando e trasformano le opinioni in azioni. Peccato che accanirsi contro degli oggetti attribuendo a loro le colpe degli uomini sia un atto vano, dato che le cose non hanno colpe semmai le colpe le hanno chi le usa e ne fa strumento di manipolazione delle coscienze. Questo non tanto perché la decostruzione o distruzione di un opera è di per se il risultato di un percorso concettuale che arriva al suo compimento, semplicemente perché si è capito che non è la materia ciò che conta nella comunicazione globale, ma il messaggio che essa veicola
Come e dunque, come scrisse un antico filosofo e scrittore cinese Lao Tzu: “Fa più rumore un albero che cade di un’intera Foresta che cresce”; eppure l’atto di distruzione è di per se un atto simbolico di grande rilevanza creativa e comunicativa che va oltre l’impatto e lo scandalo comunicativo. In una temperie culturale come la nostra, in cui il crollo della realtà è l’indice di misura del contemporaneo, la latitanza degli intellettuali e degli artisti contemporanei su questo fenomeno, è colpevole di disattenzione.
Al di la del giudizio morale ed etico, sicuramente queste azioni hanno dato un segnale di sconfitta che viene dal basso e colpisce duramente il sistema dell’arte già ampiamente compromesso dall’ inutilità dei musei di arte contemporanea e delle sue proposte recenti che non riescono più ad incidere sulle questioni più rilevanti della nostra vita. Forse è utile un’autocritica anche nella comunità artistica che liquida questi argomenti trincerandosi sotto la necessità di preservare la memoria: giustificazione alquanto superficiale e retorica. La Biennale di Venezia, con un il progetto presentato all’interno del Padiglione della Catalogna ci ha provato con la mostra dal titolo Catalonia in Venice—To Lose Your Head (Idols) a cura di Pedro Azara, che guarda caso a vissuto nel suo paese quello che ora sta accadendo nel mondo. Una mostra che “mette in discussione il feticismo delle immagini come entità viventi che incoraggiano conversazioni potenti ” Marcel Borràs e Albert Garcia- Alzòrriz erano i due artisti principali.
Concludendo dato che anche il bisogno di oblio è un diritto inalienabile che in qualche modo va compreso e governato, verrebbe da chiederci: Servono ancora i monunenti?