In questo breve articolo si vogliono presentare alcuni studi fotografici di Nature morte elaborati durante il confinamento causato dalla pandemia – Covid 19 del 2020.
Nel mio immaginario di giovane artista la “natura morta” era legata alla tradizione precedente alle avanguardie pittoriche del ‘900 perché vivevo accanto ad uno dei più celebri rappresentanti di questo genere in Trentino: Attilio Lasta (1886 – 1975), uomo riservato, ma molto presente nelle case del circondario dove anche le famiglie più umili, nella campagna in Destra Adige, si vantavano di possedere qualcuna delle sue opere. Le celeberrime e insuperabili prugne o pesche vellutate, che egli dipingeva magistralmente, erano le primizie, ancora fresche di rugiada, consegnate a mano dai figli dei contadini e dalle massaie del posto. I suoi quadri erano strettamente correlati al paesaggio – il suo primo amore che ad un certo punto smise improvvisamente di dipingere – sia per il tema che per quella magia luminosa che egli sapeva imprimere attraverso i colori ad olio.
Col tempo, ebbi occasione di conoscere i grandi disegni di Gianluigi Rocca del Bleggio ancora attivo e presente sul mercato dell’arte, poi spostandomi a Bologna le nature morte di Giorgio Morandi (1890 – 1964) dai colori mediterranei. Entrambi gli autori con i loro soggetti scardinarono in me l’ingenuo errore di considerare questo genere di pittura esclusivamente come rappresentazione di frutta e fiori. Materiale organico vivo per Attilio Lasta prima di essere stato reciso o raccolto in una cesta, cosi come forse sembravano vivi per gli altri gli oggetti prima del loro disuso.
Negli anni Ottanta Zeri andava in stampa con l’importante opera in due volumi La Natura morta in Italia, di cui ebbi notizia ma che non ho mai avuto la possibilità di leggere interamente. Zeri suscitò in me la curiosità di andare oltre il cesto di Michelangelo Merisi per incontrare opere celebri come ad esempio quelle degli italiani Guido Cagnacci (1601 – 1663) con i suoi fiori, Evaristo Baschenis (1617 – 1677) con gli strumenti musicali e lo spagnolo Francisco de Zurbarán (1598 – 1664) di cui si raccontava allora ci fosse una sua opera protetta in un caveau segreto a prova di bomba atomica, la grande paura del XX secolo.
Singolare per me in quegli anni la riscoperta di alcuni affreschi e gli stucchi di Nature Morte, nella chiesa barocca di Brancolino, sulla strada che da Nogaredo porta a Isera. Affreschi delicatissimi con cesti di frutta e fiori – alternati a Sante martiri seminude – entrambi deturpati e ricoperti fino ad allora da uno strato nero di colore posto ai tempi dell’inquisizione. Questo rinvenimento fu di grande aiuto a comprendere un altro aspetto della natura morta che avevo solo intuito, il rapporto fra vita e morte nelle rappresentazioni di questo genere.
Eros e Thanatos, per Freud interpretabili come “pulsione di vita” e “pulsione di morte” si esplicitano nelle raffinate opere del fotografo statunitense Robert Mapplethorpe (1946 – 1989), attraverso le curve dei corpi e dei fiori, in cui egli sottolinea il fatto spesso dimenticato che “i fiori sono gli organi sessuali delle piante, e che anche nel loro caso Bello Artistico e Sesso non possono essere arbitrariamente disgiunti. Poteva essere così anche per gli oggetti inanimati?
Preso da questi dubbi scoprii il senso arcaico delle nature morte: secondo alcuni studiosi esse venivano rappresentate nel mondo ellenistico accanto ai defunti come simulacro delle offerte devozionali, oppure all’ingresso delle dimore come benvenuto. I quadri dipinti con soggetti di natura morta rispondevano al nome di xénia, “doni ospitali”.
“Gli xenia sono status symbols e, in quanto tali, trasmettono una molteplicità di “messaggi muti” e intrecciati l’uno con l’ altro, preziosi retaggi della società che li ha prodotti e dei suoi rapporti umani. Il genere della natura morta incarna un complesso sistema di tradizioni antichissime e rituali condivisi, laici e sacri, mascherati con la semplicità delle cose quotidiane e nei piaceri della gastronomia: stupefacente eredità dei siti vesuviani, il realismo che li distingue, e ancora oggi ci cattura nel suo incanto, testimonia una volta in più l’ineffabile perizia dei pittori antichi e le vette artistiche che accarezzarono coi loro pennelli.”
Alessio Errico
I non rari teschi che rappresentano il memento mori e la vanitas, o i fiori appassiti, contrapposti alla floridezza delle composizioni, sottratti ad uno sguardo superficiale, ci ricordano che la bellezza è effimera e passeggera; cosi come ci è sembrata effimera e passeggera la nostra vita in questi ultimi tempi.
Altro aspetto da considerare nell’osservare queste foto sono state fatte durante il confinamento causato dalla pandemia – Covid 19 del 2020. Si vede che il tema della natura morta è qui declinato alla dimensione claustrofobica del confinamento domestico che Aimé…ha caratterizzato questi momenti. Il media scelto è la fotografia.
La plastica, l’elettrodomestico e qualche oggetto di uso comune all’interno delle nostre case è diventato il soggetto estraniante che ci pone davanti alla contemporaneità dell’opera, ma la rende anche inquietante nonostante l’elemento estetico sia al centro delle composizioni. Come si vede nell’immagine è l’occhio dell’osservatore che fa la differenza da un’epoca ad un’altra. Quell’occhio che entra nella composizione creando un cortocircuito semantico fra l’osservato e l’osservatore.
Queste foto sono delle vere nature morte? Chissà, io credo di si, non solo perché nell’epoca cosi detta Antropocene è assodato, nel bene e nel male, che gli artefatti e soprattutto gli scarti dell’uomo contemporaneo sono entrati definitivamente a far parte della natura, ma anche perché nella nostra quotidianità domestica ciò che da senso alle cose, che altrimenti non avrebbero alcun nome, è la rappresentazione sia essa ironica o drammatica.
La natura morta come qui si vuol dimostrare, finché c’è vita, non sarà mai morta.