” Come trasformare il deserto di macerie che ci sta di fronte in una cosa: per esempio nella fragile fronda, nello stelo di un fiore, magari dannato e maledetto, in cui non si manifesta la vulnerabilità, ma al tempo stesso la bellezza del mondo? In realtà Dùrer si era già rappresentato prima del disegno del 1505 nell’autoritratto conservato all? Alte Pinakothek di Monaco spesso intitolato ‘Autoritratto con pelliccia’, che porta scritto sul bordo alto a destra: “Albertus Durerus Noricus / Ispum me propriis sic effim / geban coloribus Aetatis anno XXVIII”, nessuno che passi davanti a questo quadro può restare indifferente, quegli occhi ci guardano, continuano a fissare, da più di cinquecento anni ormai, chiunque si ponga davanti ad essi. Quegli occhi ci chiamano. Ci troviamo davanti a un volto, che ha un evidenza che nessua pagina di Levinas sul volto ha potuto aggiungere. Questo volto ci comunica dolore; gli occhi sono leggermente velati da una sofferenza taciuta ma prorompente: un velo di lacrime o di febbre, che ci riempie di disagio. Come rispondere a quella sofferenza? Come Dùrer ha potuto esprimerla?” (Franco Rella; Territori dell’umano 2019, pag. 199-200)
Prosegue con questi lavori il mio percorso di ricerca sulle immagini religiose: nello specifico sono intervenuto con sottili e minimali velature bianche che coprono parte del volto.Il titolo di questo articolo “Mi voltai per vedere la voce” è una citazione dell’ Apocalisse ( Ap 1, 12). Quelle che vedete sono tutte immagini che ho trovato in casa: oggetti di religiosità popolare molto poveri – come sono spesso «le buone cose di pessimo gusto» direbbe Guido Gozzano ; qualche vecchia stampa di famiglia; qualche santino rimasto nelle pagine di un libro, altri raccolti nei miei viaggi; vecchie statuine; qualche oggetto moderno come un DVD; pagine strappate; c’è anche una foto di Antonello Veneri che mi ritrae vestito da San Vigilio.
Nell’insieme sono composti di materiali, tecniche e misure assai diverse; alcuni più importanti, con la loro cornice ed altri meno. Unica cosa che li accomuna è il mio intervento con vernice bianca, o meglio la mia manipolazione, che, come una fascia di censura bianca , anziché nera, aggiunge ad ognuno di essi quel’elemento che ormai sta ossessionando le nostre viste e i nostri pensieri: la mascherina è uno di quei D P I (Dispositivo di Protezione Individuale), che si mette sul viso allo scopo di evitare il contagio, cosi come i guanti per proteggere le mani o gli occhiali per proteggere gli occhi, i disinfettanti.
La mascherina quasi sempre nella realtà è solo un sottile strato di carta o tessuto chiaro tecnicamente più o meno sofisticata, di incerta efficacia: le variazioni dipendono dalle caratteristiche tecniche con cui è stato fatta. Questo introvabile accessorio, ormai indispensabile, ci rassicura creando una barriera fra il dentro e il fuori del nostro torace. Si, Perché il virus colpisce soprattutto i polmoni, quei due meravigliosi e simmetrici organi interni, facenti da cornice al cuore. Essi , sia il giorno che la notte, recuperano ossigeno dal’aria esterna, lo distribuiscono a tutte le cellule del nostro corpo, anche le più estreme, attraverso un complicato sistema arterioso e venoso. E’ l’ossigeno il principale nutriente del corpo umano, se manca siamo stanchi, privi di energia, di memoria, degeneriamo e poi si muore!
Il sospiro, dunque, è da sempre una forte metafora della vita e della morte, dalla genesi primordiale, ma anche quando le nostre misere limitate esistenze terrene giungono al termine e “il verme del niente” citato da Franco Rella si fa spazio e ci divora completamente. Dal soffio divino di Dio sull’argilla che diventa vita, in Adamo del Paradiso terrestre, all’ultimo respiro di ogni uomo ricacciato sulla terra da cui è costretto a trarre i frutti per sopravvivere, quell’ultimo “terribile” respiro che Cristo sulla croce ha condiviso con l’umanità.Quello che un credente come Clemente Rebora (1909 – 1957) descrive come un Grido:
“Gesù manda un gran grido./ Rende lo spirito al Padre/ Immenso silenzio improvviso:/ via fugge, snidata, la morte:/ addensate su giorno/ le tenebre, il sole le squarcia:/ si squarcia il velo del tempio./ …”
Ma il soffio , il respiro sono legati alla parola, che a sua volta non può essere separata dal soffio. Ancor prima dell’uomo, e del vangelo è la bibbia che ci fa conoscere il significato della parola creatrice di Dio, quella che segna il passaggio, dal caos al cosmos all’origine della storia: la prima manifestazione di Dio. Quel soffio evoca anche il desiderio: “chi sospira spera e quel che cerca non può aver” narra un proverbio popolare, forse dalle origini ben più nobili di quel che pensiamo. Se c’è una parola detta c’è anche qualcuno che ascolta, o qualcuno che vorremmo ascoltasse. Dunque nella narrazione di quel soffio c’è tutta la potenza della correlazione fra la misera finitezza del’uomo e l’infinità del cosmo, fra la solitudine del’individuo e il confronto/incontro con l’altro, poi non così dissimile da se stesso. Dio con Gesù si è mostrato agli uomini e da quella incarnazione sono nate le immagini che lo rappresentano.
Anche a Mosè è stato negato il volto del creatore, ma non la parola. Ed è proprio quel desiderio inascoltato, di conoscere il volto di Dio che egli disse “Ascolta, Signore , la mia voce. Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi! Il mio cuore ripete il tuo invito: ‘Cercate il mio volto’; il tuo volto signore io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo.” (Sal 27,7-9) E’ questo forse il senso di quell’invito di Papa francesco, inginocchiato la prima volta, sotto il Crocifisso a San Marcello al Corso, per invocare e pregare con forza, con rabbia quasi come a voler ripristinare quell’alleanza oltre le nebbie e le velature del dolore. Per me la mascherina rappresenta la metafora di questo dolore , di ciò che stiamo vivendo.
Quella mascherina bianca che vediamo sul volto dell’uomo dal punto di vista semiotico più che una difesa per me è una ferita, un ostacolo, una censura visuale che ci impedisce di vedere i volti nella loro completezza. Come per contrappasso, al contrario dell’urlo Edvard Munch (1863 – Oslo, 23 gennaio 1944) e delle bocche spalancate di Francis Bacon (1909 – 1992), nei miei volti contraffatti vige un muto silenzio di queste cavità celate.
La mascherina, in fondo, rappresenta anche un velo, un sudario sulla bocca, un’impossibilita di vedere una parte del volto, a cui ormai ci siamo assuefatti. Come una specie di regressione ai tempi in cui c’era l’impossibilita che si avverasse la manifestazione del divino, cosi faticosamente e superbamente conquistato in secoli e secoli di storia dell’arte, che ha fatto dell’incarnazione il suo tema fondamentale. Una epifania rappresentativa (manifestazione) che ha inizio con quella donna che asciuga il volto di Cristo e riceve in cambio il dono del suo volto sul panno che aveva gli offerto per asciugare il sudore e il sangue: Veronica. Dice giovanni Paolo II in una sua poesia ” Nacque il tuo nome da ciò che fissavi”.
In questa debacle del sistema sanitario, ancor più dei polmoni artificiali – usati solo per mantenere in vita e non per guarire, nell’attesa del vaccino e del recupero delle risorse interiori del malato, la mascherina è ormai diventata l’unica salvezza, un’icona della purezza, un emblema che accomuna sia le vittime che i salvatori e forse anche ai carnefici, infatti la vediamo spesso sul volto dei medici, degli infermieri, degli uomini della croce rossa – quelli che chiamiamo i nostri angeli, ma anche sul volto dei malati e di quelli che potrebbero essere già positivi e dunque un potenziale pericolo di contagio. Spesso osannata come panacea, usata arbitrariamente, ma sempre ossessivamente presente sia fuori dalle nostre case che dentro attraverso le immagini dei mas – media. Fa sorridere che sia entrata prepotentemente nella scena internazionale, prima dell’epidemia sui volti dei manifestanti di Ong Kong, come nei banditi dei film di Sergio Leone, e che nonostante il potere della cina, che voleva smascherare i rivoltosi, essa non si sia potuta vietare per ragioni costituzionali.
Ma c’è un altro aspetto che mi colpisce, remori di quella consuetudine fossile che appartiene alle donne mediterranee, anche oggi soprattutto nella religione islamica, ci copriamo con il velo per pudore, o per manifestare drammaticamente il lamento funebre. Copriamo la bocca con un gesto involontario della mano anche quando siamo in apprensione; quando stiamo per dire qualcosa che non ricordiamo o che non vorremmo dire; quando ci si vergogna e quando la nostra timidezza si fa avanti. A volte con quell’ingenuo atto vorremmo ipocritamente nasconderci completamente agli occhi dell’interlocutore, infatti quando è così ci viene detto: “non nascondersi dietro ad un dito”. Tutto ciò è la dimostrazione che in quell’atto, si cela qualcosa di importante per la nostra armonia psichica e forse spirituale.
Mi scuso con quelli che non apprezzando questi lavori, solo apparentemente sloow, forse non è questo il momento di provocazioni o facili ironie! Questa è una speculazione manipolatoria, lo so! Un utilizzo sconsiderato e frettoloso di ingegni altrui, ma quel forse che è peggio un mancata considerazione di quell’aura magica a cui qualcuno attribuisce un valore che va ben oltre l’oggetto materiale in se stesso. Per me è semplicemente una delicata e innocente riflessione attraverso l’arte – il linguaggio che più mi appartiene – non certo un gesto irriverente verso il comune senso religioso. Forse nel suo ripetersi cadenzato e ritmico, è anche una preghiera o almeno un tentativo di riflettere e meditare su quanto ci sta accadendo.