Osvaldo Maffei
Dall’osservazione della “Crocefissione” di Andrea Fusaro, si intuisce che l’artista non ha paura di confrontarsi a temi che hanno una certa importanza nella storia dell’arte cristiana, i quali culminano nelle più celebri rappresentazioni della passione di Cristo.
Come si vede in un piccolo particolare dalla foto, egli oltre ad essere lieve si concede delle libertà simboliche ed espressive molto interessanti: l’aureola sul capo di Cristo in Croce è infatti di colore inusitatamente rosso, attributo comune sul capo dei santi (che rimanda alla passione condivisa con Cristo ), mentre sappiamo che canonicamente la regalità del Gesù richiederebbe il nimbo dorato simbolo della natura divina (altra cosa rispetto al sangue della corona di spine). Ciò che è ancor più ci sconvolge è il volto del crocifisso e dei suoi accoliti Maria e Giovanni, apparentemente sereni, quasi sorridenti, nonostante le gocce scarlatte che colano sul suo corpo e le bocche aperte in una smorfia e di sorpresa/dolore dei due ladroni le cui croci sembrano cascare a ventaglio verso i lati per far spazio alla centralità di Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum.
Lo sfondo magmatico senza alcuna coordinata spaziale e temporale, tragico e palpitante di “colori accesi” padroneggia sulla scena trascinando in quel vortice anche lo spettatore che non trova pace in quell’alternarsi di cromie calde e fredde da cui nasce questa narrazione sublime. “Dall’abbassamento più totale della “discesa” agli inferi, espressione massima della condivisione della morte, all’innalzamento della glorificazione nella risurrezione, ascensione e intronizzazione di Gesù come Signore”. (Dionigi Tettamanzi, 2004)
Senza cedere alle lusinghe dell’oro e senza cadere in quella morbosità che dal 1000 in poi tenderà ad accendere l’ emotività e la drammaticità, attraverso la accentuazione delle piaghe, del sangue e della corona di spine “confondendo” l’aureola con la corona di spine Andrea, fonde questi due poli in una sintesi quasi mistica.
Chi mai più degli artisti come ad esempio Vincent Van Gogh (1853 – 1890), Antonio Ligabue (1899 – 1965), Francis Bacon (1909 – Madrid, 1992) e non ultimo il nostro Andrea Fusaro si possono permettere di sporgere il loro sguardo sull’abisso della follia e della morte, senza alcuna paura e tutela. Forse è l’immedesimazione (transfert) nel dramma dell’esclusione, del dolore e della mancanza d’amore di questi artisti che sono stati derisi e umiliati durante la loro vita, solo perché il loro comportamento era “diverso” e non allineato alla normatività del tempo.
Andrea la sperimenta sulla sua pelle fin da piccolo, ancor prima di rendersi conto di essere un artista, la condizione di Gesù insultato e deriso (Mt 27,27-31), quando gli aguzzini nel pretorio pongono nelle sue mani lo scettro di canna e sul capo del condannato la corona di spine, quella corona che viene trasfigurata in aureola e diventerà simbolo di un riscatto divino nella narrazione evangelica.
Eppure nella sua arte l’artista non mostra mai segni di rancore, se non leggerezza, anche quando si confronta col il tragico mistero, appunto, della Passione di Cristo, opera che forse tocca il culmine del suo fare artistico mirando alla leggerezza di Marc Chagall (1887 – 1985), alla pregnanza al grande Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 – 1944) ed alla profondita d’animo di Georges Henri Rouault (1871 – 1958).
Tornando al quadro e al colore dell’aureola, non sappiamo se l’artista sia del tutto consapevole di questa particolarissima preferenza cromatica. Anche se la sua scelta fosse ingenua e inconsapevole essa con un doppio salto mortale centra un tema cruciale della storia dell’arte sacra: il salto dal simbolismo paleocristiano della Croce Vittoriosa a quel Cristus patiens o Cristo Sofferente dei crocefissi di Cimabue e di Giotto (si veda il Crocifisso di Santa Croce,1272–1280, Cimabue, Firenze) che probabilmente fu uno dei passaggi fondamentali dell’iconografia cristiana medioevale.
A differenza dei mistici egli interpreta la vita come un bambino che pone domande spiazzanti a cui difficilmente gli adulti sanno rispondere; lo fa fa con quella leggerezza che caratterizza il volo delle rondini da cui il titolo. Racconta infatti una antica leggenda che le rondini hanno tolto la corona di spine a Cristo alleggerendolo di quel peso che i malvagi gli posarono sulla fronte quando lo gettarono in pasto al pubblico ludibrio prima della crocifissione.
Non dimentichiamo che nella tradizione cristiana del Mediterraneo le rondini annunciano l’arrivo della primavera; la loro presenza, nei sottotetti delle case, è di buon auspicio tanto che esse sono protette dagli usi e costumi della gente che le osservano passare leggere, solari e sempre attese di anno in anno.
Quella leggerezza che ci riporta all’arte carolingia (longobarda), la quale avvicinava l’arte e le rappresentazioni di carattere religioso alla gente comune, a cui sembra appartenere il misterioso Volto Santo di Sansepolcro, la grande statua lignea “acheropita” di Cristo crocifisso risalente al VIII-IX secolo e conservata nella Basilica Cattedrale di Sansepolcro che, se non fosse un’opera scultorea, sembrerebbe preso ad esempio da Andrea per i suoi ritratti. Si vedano inoltre gli affreschi di San Procolo a Naturno, affreschi datati da vari autori al VII o VIII secolo d.C., dove il santo – secondo alcuni storici, calato con delle corde dalle mura di Verona per sfuggire alla persecuzione di Diocleziano- sembra ondeggiare felice come se si trovasse sull’altalena.
In conclusione, come nella tavolozza di Andrea in cui i colori mostrano una certa ambivalenza fra toni caldi e toni freddi, cosi anche la sua poetica vacilla fra leggerezza e gravità, fra ingenuità e libertà tipica del “fauvismo” francese ( inizi del ‘900) . Non ci ingannino le tinte vivaci le cromie sgargianti perché, nelle zone topiche delle sue composizioni, esse lasciano puntualmente spazio alla plumbea verità del mito e della selva, all’origine ancestrale degli spazi sacri. Non dimentichiamo il motto “Terribilis est locus iste”( questo luogo incute rispetto), che compare sul portale d’ingresso di diversi edifici religiosi.
Così come i colori anche gli occhi dei suoi soggetti ci mettono davanti al Patos. Occhi che destano quel timor panico che si deve alla presenza del divino, sguardi provenienti dall’antica arte coopta delle origini, prima ancora che la cristianità migrasse verso le terre di ponente.
E’ in questa ambivalenza non risolta fra Patos e Logos che si riconosce l’artista Andrea, il quale usa definirsi pittore della chiesa interpretando per filo e per segno quella tradizione cristiana, recuperata poi dal Concilio Vaticano II, che affonda le sue radici nei millenni segnati dal conflitto fra la carne e lo spirito.
“Dopo la morte e resurrezione di Cristo,
il dolore dell’uomo non è più un dolore cieco,
un dolore muto, demente, folle e disperato;
bensì un dolore che conduce l’uomo nel grembo
stesso della sua speranza; è quindi un dolore che conduce l’uomo a
raggiungere il senso primo ed ultimo della sua vita.
È dunque un dolore
santo, un dolore, ecco…, “felice”.
Giovanni Testori (1923 – 1993)