“Il writing si è imposto per acclamazione popolare,
è emerso come un fiore nella spazzatura,
estraneo al percorso dell’arte”
Marco Teatro, 2021
Ci sono artisti e poeti che mantengono la propria fama ininterrottamente, altri invece vengono dimenticati fin da subito, questo indipendentemente dalla loro bravura o dalle loro capacità di successo; quello che conta è che di quasi tutti rimangono tracce che nel tempo riemergono.
Artisti che in un certo qual modo si inseriscono in quella tendenza all’oblio, tipica di fine novecento, rappresentano al meglio la cultura o subcultura underground declinabile oggi nella “definizione” di Street Art, che qualcuno definisce un vero e proprio tradimento delle origini suburbane. Lucio Sartori, acronimo LSD69, nato a Rovereto il 7/7/1969 è, forse inconsapevolmente, uno di loro.
La biografia della sua vita si allinea a quel genere di esperienze che affondano le radici nel cuore della “beat generation”, contraddistinta da un forte spirito di ribellione e di rifiuto verso i valori tradizionali della società contemporanea.
Infatti molto prima che si cominciasse a parlare di Writing, Stencil, Street Art ecc., una nuova tendenza veicolata soprattutto dall’editoria e dalla musica cominciava a contaminare l’ Europa e l’Italia per poi esplodere nelle aree suburbane. E’ stata la beat generation, importata da Fernanda Pivano negli anni Sessanta dagli Stati Uniti, che portò aria nuova e contribuì a scuotere la cultura italiana del ‘900, anche riguardo ai linguaggi visivi e psichedelici della cultura hippy. Poi negli anni 70, dopo la fine dell’utopia sessantottina, arrivò il Punk – fenomeno sostanzialmente musicale di importazione londinese. I due fenomeni sociali posero le basi di quella controcultura che si opponeva al conformismo bigotto del mercato dell’arte, travolgendo con la sua dirompente vitalità le altre specificità espressive ed estetiche.
Il Punk, in particolare contestando la cultura patriarcale ed arrivista, si contrapponeva al mito del successo anche a costo di una tendenza autodistruttiva che poteva portare al sicuro fallimento ( Marco Teatro,“La guerra dei segni, un’altra storia dell’arte”, 2021, p. 139).
Gli artisti “omosessuali” newyorkesi Jean-Michel Basquiat (1960 –1988) e Keith Haring (1958 – 1990), affiliati alla Factory di Andy Warhol, influenzarono le generazioni successive del graffitismo internazionale. Angeli maledetti, dopo le prime esperienze di strada, affrancatisi dal mondo della marginalità, caddero vittime dell’eroina e dell’Aids: il compimento di una profezia underground che si avvera forse proprio a causa del loro successo.
La loro capacità di smarcarsi dalle tecniche pittoriche più convenzionali ed accademiche, arrivò in Italia attraverso dei timidi tentativi veicolati dalle riviste come ad esempio “Cannibale” (1977) di Marco D’Alessandro e Massimo Mattioli e pochi anni dopo “Frigidaire” (1980). Il disegnatore Stefano Tamburini (1955-1986) con il suo personaggio Rank Xerox e Andrea Pazienza (1956 – 1988) segneranno un’epoca.
Il crollo del muro di Berlino del 9 novembre 1989 contribuisce ad aprire gli orizzonti politici culturali a nuove contaminazioni fra arte ufficiale e arte di strada, facendola uscire dai suoi supporti tradizionali per riversarsi definitivamente nelle città, lungo le strade, sui vagoni ferroviari e nelle periferie urbane, ma anche nei piccoli centri rurali. Innescatisi sulla moda dei “Murales” – nulla ha a che vedere con il fenomeno del “Muralismo” d’ispirazione social-popolare del messicano Diego Rivera – emergeranno fenomeni che vanno dal writing alla Street Art. Questi fenomeni rivoluzionari col tempo cambieranno pelle diffondendosi a livello di massa fino ad essere implacabilmente assimilati dalla pubblicità e dal sistema delle gallerie. Si veda ad esempio l’anonimo writer inglese Bansky considerato uno delle più discusse celebrità di questa tendenza. Infine arrivò l’arte pubblica considerata una delle declinazioni mainstreaming di questo lungo percorso, dato che rappresenta un’alternativa al graffitismo senza controllo e per questo molto amata dalle autorità politiche.
E’ in questo articolato contesto che nel 1987 nasce Istituto d’Arte “Fortunato Depero” in cui il giovane artista Lucio Sartori svolge i suoi primi studi d’arte. Come altri, appartiene a quei giovani della generazione X roveretana, figli del miracolo economico, della guerra fredda, dei mass media e poi del terrorismo e del liberismo alla Thatcher – Reagan, che sono i primi a non dover emigrare altrove per studiare arte.
Lucio Sartori, diplomatosi nel 1990, comincerà fin da subito a dipingere il passaggio ferroviario della stazione ferroviaria di Rovereto. Alcuni artisti fuori dai giri, l’amico scomparso Andrea Alimonta e Andrea Fusaro (in quell’occasione scoperto da Luigi Serravalli), lo affiancheranno in quest’opera ciclopica assieme assieme ad altri diplomati del suo corso che con lui costituirono l’associazione di grafica pubblicitaria Ottocinetico con sede a Borgo Sacco.
In città verso la metà degli anni ‘90, l’associazionismo laico intanto guadagnava terreno e qualche centro di aggregazione giovanile, accanto agli oratori, cominciava a nascere. Erano ancora lontani però i tempi di Manifesta 7 (2008) in cui Ericailcane e Blu dipinsero il murales sul Lungoleno sinistro e il centro giovani Smart Lab nel 2014 commissionava l’opera di arte pubblica “Invader” a Laurina Paperina.
Il festival Oriente Occidente, nato nel 1981, ormai maturo, importava spettacoli di danza e teatro d’avanguardia; la Rassegna del Cinema Archeologico Internazionale nasceva nel 1989 benedetta da una delle prime video-installazioni che il sottoscritto realizza in Trentino.
Grazie alla nascita del centro sociale “Clinamen” (1991), sito in via Savioli, cominciarono arrivare interessanti laboratori di arte ed musica che si rifacevano a quel mondo che in un certo qual modo potremmo definire figlio della cultura underground . Fra le tante si ricorda la mostra internazionale di Mail Art. Finita l’esperienza del Clinamen una coda proseguì l’aggregazione con il Laboratorio autogestito “Cirano”. Nel 1994, alla discoteca ”Morice” di Villalagarina nasceva l’Arcigay del trentino, mentre l’associazione Numero Civico ospitava Pea Brain l’ochetta degli street-artist Monica Cuoghi e Claudio Corsello, i quali con i loro disegni sui muri della città di Rovereto riescono a creare anche un po di scompiglio fra i benpensanti roveretani che consideravano le scritte sui muri qualcosa di illegale. Non si capiva ancora se i colori del writing sui muri della città fossero arte, vandalismo o espressione visiva di stati alterati di coscienza – che sappiamo essere una fonte di ispirazione artistica. Tutto ciò veniva relegato al mondo della devianza, eppure in quegli anni al Museo Civico di Rovereto c’era la sede editoriale di “ELEUSIS”, una delle più interessanti riviste italiane sulle droghe psichedeliche.
Sostanzialmente il Trentino non era affatto maturo per accettare una correlazione fra cannabis e arte, figuriamoci se accettava qualcuno che “imbrattava” le loro case: non era difficile incontrare giovani che per punizione grattavano le scritte dei muri sulle vie principali: forse è per questo che Lucio Sartori dovette chiedere il bene placido del capostazione. Questa cautela non servi ad evitagli delle spiacevoli code giudiziarie: il grande disegno del fallo con un condom in testa dedicato all’AIDS, la tragedia del secolo scorso, molto prima della campagna ministeriale di Lupo Alberto con l’opuscolo “Come ti frego il virus!”, fece scalpore!
Nel 1996, dopo che la discoteca “Charly” di corso Bettini, lascia il posto alla nuova gestione del “Sottosopra”, gestita dagli amici Matteo Debiasi e Luca Micheloni. Lucio Sartori ne ridipinge gran parte delle pareti con dei soggetti che si rifacevano allo stile di Keith Haring: dipinti di grande effetto fra luce stroboscopiche, infrarossi, dance music e musica techno. Un altro dei suoi lavori di arte pubblica, forse l’unico rimasto ancora in città, fu la lunga serie di quadri acrilici dipinti sul grande muro della nuova piscina comunale, in cui un atleta del nuoto rappresentato in forma di pittura murale veniva moltiplicato infinite volte con caratteristiche, sfondi e posizioni sempre diverse. Un vago ricordo di quel nuotatore che, per la prima volta sugli schermi dei televisori, passava da un monitor all’altro nell’opera video ambientale di Studio Azzurro a Palazzo Fortuny – alla Biennale di Venezia nel 1984.
Nonostante le capacità grafiche e forse pubblicitarie di Lucio fossero davvero eloquenti, il suo stile di vita, il suo tratto caratteriale e le sue scelte – ancora troppo trasgressive rispetto alla normatività di una cittadina di provincia ai confini dell’Impero – lo distingueranno dagli altri diplomati. I colori di Lucio, l’ironia delle sue narrazioni e le sue taglienti provocazioni provengono dal tempo dei “figli dei fiori”, e se fosse rimasto sulle tele avrebbe potuto appartenere al movimento Fluxus, magari finire pure in qualche galleria d’arte o in uno studio pubblicitario, ma lui scelse i marciapiedi da cui farà fatica ad emergere anche se aderendo alla cooperativa Ottocinetico cerca una sorta di accredito sociale raccattando lavori nei negozi e nei bar di Rovereto.
Tra il 1995 e il 1996 Lucio come molti altri talenti è costretto ad emigrare verso sud: prima in Sardegna e poi a Verona, lasciando dietro di sé una città poco grata ai suoi giovani artisti emergenti, delusi da un Mart che da subito rappresentò una grande illusione per gli artisti contemporanei trentini dato il taglio fortemente elitario del Museo. La Galleria Civica di Trento era ancora tropo lontana e non erano ancora arrivati le grandi opere che rallegrarono i muri delle vecchie fabbriche del Lungoleno e le caserme di Piazza Follone. Progetti importati da Duccio Dogheria archivista del MART. che trovarono un seguito sui muri della ex Manifattura Tabacchi a cura di Francesca Piersanti nel 2012, ed ora sono diventati moda.
Curatori e critici d’arte che in un certo modo sdoganano questo tipo di arte anche con articoli e mostre, tra cui si possono citare i murales di Michele De Feo e Bastardilla sempre sul Lungoleno e il ritorno di Ericailcane nel 2014.
Si ricorda a tal proposito il bel libro di Duccio Dogheria, Giunti 2015, che ripercorre la storia della Street Ar,t definita dall’autore una delle forme più indefinibili dell’arte contemporanea.
La città in cui Lucio Sartori vive ora lo ha accolto come in un grande grembo materno pieno di lusinghe, di sorprese, ma anche di contraddizioni e pericoli. Nella Verona delle storiche scuole d’arte, delle importanti gallerie ed eventi musicali e fieristici come “Abitare il tempo”, questo genere forse non attecchiva. Fuori da questa cerchia però, come altrove, qualcosa stava accadendo: il primo disegno realizzato con bombolette spray appare già nel 1984 realizzato dagli Electric Snakes, prima scuola di breakdance della città di Verona Nel crogiolo degli ex Magazzini Generali presidiati dall’associazione “Interzona”, si assistette alla diffusione dei graffiti fra disagio, problemi di sicurezza e di criminalità presenti nel luogo, ma anche con energie stimolanti ed creative.
Ancor oggi nonostante le amministrazioni mettano a disposizione spazi, bandi e occasioni di regolamentazione di questo tipo di arte, Sartori procede sulla “sua strada”, dipingendo cassonetti e quadri elettrici sui marciapiedi di Verona, mantenendo cosi vivo quel’ anima trasgressiva che cammina sul filo del rasoio fra legittimità e illegalità, che in fondo è il vero cuore della Street Art che io amo.
Articolo pubblicato su rivista tremestrale – Anno III N. 10 gennaio 2022 . Pag. 90-93, ARTE TRENTINA, Rivista dell’arte del Trentino. N.11, Edizione d’Arte Dusatti